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Presupposti applicativi dell’art. 296 c.p.p. e inquadramento giuridico della “latitanza”.

L’art 296 c.p.p. definisce che il latitante come colui che si sottrae volontariamente all’esecuzione di un ordine con il quale si dispone la carcerazione (c.d. latitanza “esecutiva”) ovvero di un provvedimento cautelare che dispone la misura della custodia cautelare in carcere, gli arresti domiciliari, l’obbligo di dimora o il divieto di espatrio (c.d. latitanza “processuale”).

Non si può parlare di latitanza quando un soggetto si sottrae all’esecuzione di un provvedimento che dispone il divieto di dimora, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, l’allontanamento dalla casa familiare o l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, in quanto il legislatore ha previsto in maniera tassativa l’elenco delle misure cautelari che possono dare luogo alla latitanza.

Presupposto della latitanza è l’esercizio da parte dell’autorità giudiziaria del potere coercitivo attraverso l’emissione di uno dei provvedimenti tassativamente indicati dall’art. 296 c.p.p. e l’impossibilità di eseguire tale provvedimento a causa della condotta del soggetto destinatario che si sottrae coscientemente all’ esecuzione del provvedimento coercitivo.

Per l’emissione del provvedimento di latitanza, non occorre dimostrare la conoscenza da parte del soggetto della avvenuta emissione di tale provvedimento, ma è sufficiente che l’interessato si ponga volontariamente in condizioni di irreperibilità, sapendo che quel provvedimento può essere emesso.

La latitanza viene dichiarata dal giudice con decreto motivato, una volta che la persona nei cui confronti il provvedimento sia stato disposto non venga rintracciata a seguito di ricerche degli agenti: lo status di latitante viene dichiarato sulla base del verbale di vane ricerche ex art 295 c.p.p.  redatto dalla polizia giudiziaria a seguito della mancata esecuzione dell’ordinanza che dispone la misura cautelare o dell’ordine di carcerazione.

Con il provvedimento col quale il giudice dichiara lo stato di latitanza viene designato anche un difensore d’ufficio, se non è stato nominato quello di fiducia.

La latitanza, per espressa previsione normativa, è una circostanza aggravante a differenza dell’evasione  (ex art. 385 c.p.) che invece è una autonoma fattispecie di reato.

La differenza invece tra lo status di latitante e lo status di irreperibile risiede nel fatto che l’irreperibilità è una situazione di fatto dovuta alla circostanza che all’autorità giudiziaria è effettivamente ignoto il luogo ove abiti il ricercato, la latitanza di contro presuppone la volontà di nascondersi per evitare la cattura, il soggetto dunque con consapevolezza evita di essere rintracciato.

Il diverso status comporta delle differenze anche processuali: in caso di irreperibilità il giudice deve disporre la sospensione del procedimento fino ad un anno per consentire idonee ricerche dell’indagato irreperibile ed inoltre l’irreperibilità deve essere accertata in ogni grado di giudizio, essendo onere degli inquirenti effettuare nuove ricerche;

la latitanza, invece, una volta dichiarata, resta tale fino alla sua cessazione e senza che vengano disposte nuove ricerche.

Nell’interesse dell’imputato/indagato latitante i prossimi congiunti hanno la facoltà di nominare un difensore di fiducia, ciò al fine di agevolare l’intervento di un difensore di fiducia, a preferenza di quello d’ufficio.

Circa le modalità di effettuazione della dichiarazione di nomina di un legale di fiducia da parte di colui che si è reso irreperibile, la Cassazione è stata chiamata ad affrontare la questione avente ad oggetto la validità dell’atto di nomina del difensore di fiducia con sottoscrizione non autenticata trasmesso all’autorità giudiziaria a mezzo corriere espresso DHL.

Può la raccomandata, unica modalità espressamente prevista dalla norma, essere equiparata all’invio della nomina tramite corriere espresso?

La seconda sezione della Cassazione penale, con la sentenza n° 40827/14, arriva alla conclusione che tale modalità di spedizione deve ritenersi del tutto equiparabile all’invio di una raccomandata dovendosi interpretare in senso estensivo il disposto di cui all’art. 96, comma 2, c.p.p., tenendo conto delle sempre più innovative modalità di spedizione delle comunicazioni e dell’esigenza di garantire in primis il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 della Costituzione.

Del resto  la giurisprudenza si era già espressa con riferimento al caso della nomina di difensore trasmessa a mezzo fax, statuendo che: “Posto che l’art. 96, comma 2, c.p.p. è norma tipicamente ordinatoria e regolamentare, suscettibile di interpretazione ampia in bonam partem, è assolutamente illogico escludere a priori la possibilità di fare pervenire all’autorità procedente l’atto di nomina del difensore mediante sistemi di comunicazione tecnicamente avanzati (quali il telefax) che ne rendano più rapida la trasmissione, a patto, però, che detti sistemi garantiscano la medesima affidabilità propria della consegna diretta o mezzo raccomandata. L’onere di curare che ciò avvenga grava su colui il quale presceglie modalità di spedizione alternative a quelle codificate” (Cass. Pen., Sez. III, 10 febbraio 2011, n. 115).

Avv. Sandra Amarù

 

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