Con la pronunzia n. 9 del 25 giugno 2018, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affrontato la vexata quaestio del contrasto fra la c.d. “riserva di nazionalità” – per come sancita dal d.P.C.M. 174 del 1994 – e il principio di libera circolazione dei lavoratori di cui all’articolo 45 del TFUE.
Il caso, che ha conosciuto un grande clamore mediatico, riguarda (tra l’altro) la nomina dello storico dell’arte austriaco Peter Assmann, individuato dall’allora ministro Dario Franceschini quale Direttore del Palazzo Ducale di Mantova, “bocciato” dal Tar Lazio e quindi riammesso dopo un brevissimo lasso di tempo dal Consiglio di Stato.
In particolare, il Giudice di prime cure aveva dichiarato l’illegittimità della nomina di Assmann, tra l’altro, per mancanza della cittadinanza italiana.
Difatti, in ragione del criterio della “riserva di nazionalità”, secondo il TAR Lazio soltanto un cittadino italiano sarebbe stato legittimato all’assunzione di un incarico dirigenziale presso l’amministrazione dello Stato Italiano, in applicazione delle previsioni del d.P.C.M. 174 del 1994.
L’Adunanza Plenaria, dopo una dettagliata ricostruzione della vicenda, che involge ulteriori ed importanti questioni di diritto, si è soffermata ampiamente sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, a mente della quale gli Stati membri dell’UE possono legittimamente invocare la riserva di nazionalità per i soli impieghi nell’amministrazione pubblica “che hanno un rapporto con attività specifiche della pubblica amministrazione in quanto incaricata dell’esercizio dei pubblici poteri e responsabile della tutela degli interessi generali dello Stato”.
Difatti, gli stati membri sono autorizzati a riservare gli impieghi nella pubblica amministrazione ai loro cittadini solo se questi impieghi sono direttamente collegati ad attività specifiche della pubblica amministrazione, nelle quali questa sia investita dell’esercizio dell’autorità pubblica e della responsabilità di salvaguardare gli interessi generali dello Stato.
Tuttavia la Corte di Giustizia limita il ricorso al criterio della “riserva di nazionalità”, il quale deve ritenersi applicabile a condizione che vi sia “una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri da parte dei soggetti esercenti“ (in tal senso: CGUE, sentenza 31 maggio 2001 in causa C-283/99), ed a condizione che risulti necessario salvaguardare gli interessi sottesi all’adozione di tale misura (CGUE, sent. 3 luglio 1986 in causa C-66/85, Lawrie Blum; CGUE, sent. 10 settembre 2014 in causa C-270/13 – Iraklis Haralambidis).
Ancora la C.G.U.E. ha sostenuto il ricorso alla c.d. “riserva di nazionalità” se il soggetto, investito di pubblici poteri d’imperio dal diritto nazionale, eserciti “abitualmente” ed “effettivamente” gli stessi senza che questi rappresentino una parte molto ridotta delle sue attività.
Pertanto, nel caso in cui vi sia “prevalenza” delle funzioni pubbliche svolte di fatto dal singolo soggetto che ne risulti investito, si renderebbe pienamente legittima l’applicazione del criterio di “riserva di nazionalità”.
L’Adunanza Plenaria cerca quindi di superare il contrasto tra l’art. 45 T.F.U.E. (libertà di circolazione) e gli artt. 51 e 54 Cost. (rispettivamente in tema di parità e rispetto delle regole nell’attribuzione dei pubblici poteri), trovando la chiave di lettura d’interpretazione conciliativa nell’art. 11 Cost..
Ebbene, ritiene l’A.P. che le disposizioni sulla libertà di circolazione all’interno dell’Unione, devono considerarsi recepite nell’ordinamento interno, nell’ambito del quale il diritto dei cittadini dell’Unione di accedere a posti di lavoro nel nostro Paese è assistito dalla garanzia generale dell’art. 45 citato.
Per tali ragioni l’art. 51 Cost. va piuttosto letto in conformità all’art. 11 Cost., nel senso di consentire l’accesso dei cittadini degli Stati dell’Unione europea agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche nazionali in via generale, sulla base del principio della libera circolazione delle persone ex art. 45 T.F.U.E., salvo gli eventuali limiti espressi o legittimamente ricavabili dal sistema, con riguardo alla concreta partecipazione all’esercizio di pubblici poteri o comunque alle circostanze poste in rilievo nella richiamata pronunzia della Corte di giustizia.
In conclusione, l’A.P. esclude in radice che gli articoli 51 e 54 Cost. impediscano l’attribuzione a cittadini di altri Paesi membri dell’Unione europea di incarichi di funzioni dirigenziali.
Mentre l’articolo 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 e l’articolo 2 del d.P.R. 487 del 1994, relativi all’attribuzione di posti dirigenziali in favore di cittadini non italiani, contrastano con i vincoli posti dal paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE in tema di limitazione del principio di libera circolazione dei lavoratori.
Queste le conclusioni in diritto cui perviene l’Adunanza Plenaria: <<1. “Il Giudice amministrativo provvede in ogni caso a non dare applicazione a un atto normativo nazionale in contrasto con il diritto dell’Unione europea”; 2. “L’articolo 1, comma 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 e l’articolo 2, comma 1 del d.P.R. 487 del 1994, laddove impediscono in assoluto ai cittadini di altri Stati membri dell’UE di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consentono una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla singola posizione dirigenziale, risultano in contrasto con il paragrafo 2 dell’articolo 45 del TFUE e non possono trovare conseguentemente applicazione”>>.
In applicazione del pertinente quadro normativo europeo e nazionale, pertanto, la nomina di Assmann a Direttore del Palazzo Ducale di Mantova deve ritenersi legittima.
Marco Salibba