Il tema dell’usucapione delle parti comuni del condominio di cui all’art.1117 c.c., da parte di uno dei condomini, è stato recentemente affrontato con la sentenza n. 20144 del 22.06.2022, con la quale la Suprema Corte di Cassazione si è conformata ad un orientamento giurisprudenziale già prevalente in materia (cfr. Cass. Civ. n. 5335/2017), chiarendo quali siano i presupposti dell’usucapione, nel caso di specie.
L’articolo 1117 c.c. individua tre categorie di parti comuni del condominio, in ragione del loro rapporto strutturale o funzionale con l’edificio: parti che formano la struttura dell’edificio in senso stretto, locali accessori destinati al servizio generale dello stabile, tutti gli impianti e le opere non indispensabili ma destinati a servizi di uso e godimento comune.
Per quanto concerne, invece, l’istituto dell’usucapione si tratta di un modo di acquisto della proprietà o di altro diritto reale, e, più precisamente, è un modo di acquisto a titolo originario, con il quale avviene il trasferimento della proprietà stessa dal precedente titolare del diritto al soggetto, senza il compimento di un atto traslativo, ma per il solo effetto dell’azione combinata del possesso ininterrotto e del decorso temporale richiesto dalla legge.
Con specifico riferimento ai beni immobili, il riferimento normativo si rinviene nell’art. 1158 c.c. del codice civile ai sensi del quale “ la proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”.
Si tratta della cosiddetta possessio ad usucapionem che consiste in un possesso continuato o continuo tale da far mantenere nel possessore, che ha la materiale disponibilità del bene, la possibilità di esercitare, quando voglia, atti di signoria, comportandosi come l’autentico padrone del bene (uti dominus), con ciò dimostrando l’inequivocabile volontà di escludere dal possesso del bene il legittimo proprietario del medesimo.
Ma l’usucapione può trovare applicazione anche nel condominio, per il semplice possesso ultraventennale di un bene comune?
L’istituto dell’usucapione è spesso invocato in ambito condominiale: si pensi ad un condomino che si sia impossessato di uno spazio comune quale, ad esempio, una cantina, un solaio, una parte del cortile e lo abbia usato a suo piacimento, con esclusione degli altri condomini dall’utilizzo dello stesso.
Il condomino quale comproprietario, in proporzione alla sua quota millesimale, dei beni comuni, può utilizzarli in virtù del suo titolo di (com)proprietà, senza che ciò possa risultare sufficiente a rivendicare la proprietà esclusiva per intervenuta usucapione, con conseguente perdita del titolo di (com)proprietà per gli altri condomini.
La giurisprudenza, al riguardo, ha specificato che ai fini dell’usucapione deve “ sussistere un comportamento continuo e non interrotto, finalizzato in modo inequivocabile all’esercizio sulla cosa per tutto il tempo previsto dalla legge di un potere corrispondente a quello del proprietario” (cfr. Cass. n. 17459/2015).
Ed invero, l’usucapione del bene comune da parte di uno dei condomini presuppone che il medesimo goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, ovvero tale da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, senza che possa ritenersi sufficiente che gli altri condomini si astengano dall’uso della cosa comune (cfr. Cass. 24781/17).
La questione è stata di recente affrontata con la sentenza della Corte di Cassazione n. 20144/ 2022.
Alcuni condomini proponevano ricorso per la cassazione della sentenza con cui la Corte d’Appello, in conformità della sentenza di primo grado del Tribunale, aveva respinto le domande da loro avanzate nei confronti degli altri partecipanti al condominio per sentire dichiarare l’usucapione di due porzioni dell’area esterna di pertinenza del fabbricato condominiale, individuati in lotti ben specifici.
La Corte d’Appello riteneva che gli attori non avessero dimostrato di aver esercitato il possesso necessario all’usucapione: pur avendo dimostrato di avere goduto dei lotti in via esclusiva, fallace era risultata la prova di aver esercitato sui lotti de quibus lo jus excludendi tale da consentire di qualificare il loro godimento non come esercizio del compossesso, ma come esercizio di un possesso esclusivo , ovvero incompatibile con la comproprietà degli altri condomini.
L’area condominiale interessata era suddivisa in porzioni distinte da demarcazioni poste a terra, senza alcuna divisione idonea ad impedire l’uso condominiale di ciascuna striscia e, nonostante l’uso particolare e prevalente dei ricorrenti, che nei lotti avevano esercitato attività di piccola coltivazione e svago, con la tolleranza degli altri condomini, la Corte d’Appello riteneva che l’area condominiale in questione fosse rimasta tale, sicchè i soccombenti in secondo grado proponevano ricorso per cassazione.
La Cassazione, tuttavia, rigettava il ricorso dei ricorrenti sul presupposto che “ gli atti compiuti dal condomino che adduce di aver usucapito il bene comune devono essere ‘obiettivamente inconciliabili’, in modo ‘univoco’, con la fruizione del bene da parte degli altri condomini”, senza che al riguardo possa ritenersi sufficiente un’astensione dall’uso della cosa comune da parte degli altri partecipanti o un uso più intenso del bene comune da parte di un condomino rispetto agli altri.
In conclusione, l’onere della prova dell’esercizio sulle aree di uso comune di uno jus excludendi , che grava su colui che invoca l’avvenuta usucapione del bene e che ne chiede l’accertamento, deve essere tale da manifestare il dominio esclusivo sul bene comune, ovvero un godimento inteso come possesso esclusivo.
Avv. Astrid Tomasi